Cari lettori, e visto il tema, care lettrici, oggi parliamo della difficoltà delle donne ad accedere ad alcune carriere e nello specifico riportiamo l’esempio della Banca d’Italia, raccontato su un articolo di qualche giorno fa di La Voce.info, in seguito ripreso anche su Il Fatto Quotidiano .
L’articolo in questione presenta i risultati di una ricerca condotta sulle selezioni per la Banca d’Italia, dove solo il 35% dei dipendenti – e la situazione si complica nei ruoli di vertice – è rappresentato da donne.
La bassa presenza femminile nelle posizioni apicali sembrerebbe dipendere da fattori socio-demografici: oltre l’80 per cento dei dirigenti della Banca ha un’età compresa tra 50 e 65 anni e un’istruzione universitaria. In questa fascia di età, il numero di donne laureate e specializzate è inferiore rispetto a quello degli uomini.
Molto più difficile è invece capire come il gap persista nelle assunzioni di neo laureati. Sappiamo bene che gli standard attuali capovolgono la tendenza di cui sopra e vedono le donne laurearsi prima e con voti più alti rispetto agli studenti uomini. Anche l’attitudine femminile a scegliere con meno frequenza materie scientifiche non fornisce spiegazioni sufficienti. Il principale mercato di riferimento, per questo tipo di carriera, è quello dei dottori in economia e giurisprudenza e in Italia la quota delle donne che si laureano in queste facoltà è pari al 56%, in linea con gli altri paesi avanzati.
Eppure nelle sette selezioni tra il 1998 e il 2009, destinate a economisti, le donne (61,5 per cento % dei partecipanti ) hanno rappresentato solo il 35,5 % degli idonei. Cosa è successo?
Al momento del test preselettivo a risposta multipla, articolato in tre sezioni – attitudinale, linguistica, specialistica – le performance delle donne sono state in generale peggiori rispetto a quelle dei loro colleghi maschi. Il limitato insieme di informazioni raccolte nella domanda di partecipazione al concorso non ha permesso però di spiegarne il divario.
Per approfondire il fenomeno, ai 2.441 candidati delle due selezioni per giuristi svolte nel 2010 e nel 2011 – che confermavano ugualmente i migliori risultati maschili – è stato somministrato un questionario supplementare volontario riguardante percorso post-laurea, background familiare, motivazioni lavorative e alcuni tratti psico-attitudinali.
Sono pervenute 1.156 risposte. E questi i risultati.
Il 40% del gap sarebbe riconducibile ai seguenti elementi, che vedono gli uomini che hanno partecipato alle selezioni caratterizzarsi per
- maggior conseguimento di titoli di studio post-laurea e più esperienze di lavoro precedenti a tempo pieno
- provenienza da famiglie con livelli di istruzione più elevati, atenei prestigiosi e Regioni del Nord Italia
- minor partecipazione ai concorsi pubblici, risultandone però vincitori in più occasioni.
Inoltre, gli uomini indicano meno spesso di aver risposto anche alle domande del test su cui non si sentivano preparati ed è interessante notare come molti di questi fattori non si riscontrino nella popolazione complessiva di laureati nelle stesse materie, suggerendo che esista un vero e proprio processo di autoselezione: parteciperebbero cioè al concorso della Banca i candidati maschi più abili.
Dalla ricerca emerge che un ulteriore 34 % del divario è attribuibile ad altre variabili come ad esempio, l’ avere un figlio di età inferiore ai 14 anni, condizione che svantaggia le donne ma non gli uomini. Un quarto del divario rimarrebbe non spiegato.
La prima ipotesi per capire il fenomeno ha avanzato il sospetto di discriminazione implicita nelle selezioni, ipotesi che si è dimostrata non avere fondamento. La discriminazione implicita si riscontra quando per esempio un datore di lavoro accorda involontariamente una preferenza a candidati appartenenti a un certo gruppo, in assenza di elementi che ne dimostrino la migliore qualità.
Nel caso del test pre-selettivo, la differenza di genere nella quota di risposte mancanti poteva suggerire l’esistenza di discriminazione implicita in riferimento all’ avversione al rischio e al maggior numero di risposte omesse da parte delle donne.
La formula di valutazione del test è stata tuttavia modificata per i test somministrati dal 2010, aumentando la penalità per gli errori da 0.3 a 0,7 punti: in questo modo, una risposta a caso sarebbe risultata meno conveniente. Questa modifica non ha cambiato tuttavia la situazione.
Un’altra direzione di ricerca ha preso in considerazione gli effetti che l’autostima può determinare sul gender gap. Ai candidati delle sessioni concorsuali 2010 e 2011 è stato somministrato il questionario di Rosenberg, uno degli strumenti più usati per la misura dell’autostima. Anche in questo caso, i dati raccolti non hanno però consentito un’analisi approfondita.
Comprendere le cause reali del gap resta dunque una questione aperta. Tuttavia l’articolo offre diversi spunti di ragionamento che non ci aiutano forse a capire le ragioni di differenze così forti nel caso specifico, ma che stimolano sicuramente una riflessione più ampia.
Prendiamo per esempio la differenza di background tra uomini e donne. Uomini quindi con percorsi formativi e professionali migliori: maggior istruzione, carriere più stabili, etc…
Mi chiedo se la differenza nei percorsi universitari non sia da attribuirsi ad una visione, più o meno inconscia, che “blocca” l’investimento femminile nel lungo periodo: si alla carriera universitaria brillante, ma quanta reale motivazione può accompagnare investimenti post-laurea, magari ingenti anche sul piano economico, se poi il timore di non vedere realizzati i proprio sforzi è ancora, in Italia, per le donne così alto?
In riferimento invece alla differenza sul fronte delle precedenti esperienze lavorative. Sappiamo per certo, lo abbiamo visto anche con la ricerca Fattore D, che il mercato del lavoro riservi per lo più alle donne contratti atipici e “flessibilità”. Questo potrebbe spiegare anche la tendenza femminile a cercare impieghi più “certi”, posti di lavoro che fino a poco tempo fa erano rappresentati nell’immaginario collettivo dal settore pubblico. Ciò potrebbe non dipendere da una minore propensione al rischio, ma dalla consapevolezza di essere nel mercato del lavoro e nella società più vulnerabili. Pensando quindi al proprio futuro, alla maternità e al peso del proprio ruolo sociale e familiare potrebbe esistere una propensione a cercare impieghi più garantiti e tutelati rispetto all’estrema precarietà di altre forme di impiego.
E ci ricongiungiamo anche a quel 34% del gap che vede penalizzate donne, e non uomini, con figli piccoli… anche questa è un’anomalia tutta italiana, dove in ambito professionale si è “donne e mamme” ma raramente “uomini e papà”.
Mi chiedo inoltre se non esista una forma mentis che struttura il modo di selezionare e valutare professionalità e competenze ancora “al maschile”. Se consideriamo ancora l’avversione e la propensione al rischio, quanto le organizzazioni finanziarie potrebbero beneficiare dall’equilibrio concreto di tali attitudini ? Facendo affidamento su capacità di giudizio più eterogenee e avendo la possibilità di agire su nuovi interlocutori, proponendo servizi differenti e più “su misura”?
Insomma, inutile guardare alla Svezia e pensare che aumentare asili nido e quote rosa rappresenti la vera soluzione ai problemi (ma per favore FATELO ugualmente!) quando siamo ancora lontani dall’intervenire su quella che è la base culturale del nostro Paese.
Fino a quando parleremo di maternità e non di genitorialità; fino a quando la famiglia non sarà al centro del sistema sociale e produttivo, ma continuerà ad essere un’entità solo ideologica e centro di consumo; fino a quando la cultura della diversità, anche di genere, non accompagnerà tutti gli aspetti della vita sociale degli italiani - scuola, famiglia, lavoro, politica – modificando dall’interno il modo di considerare talento, attitudini, competenze e prospettive, la gender difference resterà solo un problema e non un’opportunità. A discapito di tutti!