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Sulcis, sto dalla parte dei minatori. Ma c’è un altro futuro possibile? Ecco chi ci ha provato. Riuscendoci.

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“Eppure mi piace tutto questo futuro 
e anche il tempo sprecato che non vedo già più.”

Confesso di sentirmi confuso e combattuto di fronte alle drammatiche vicende dei 467 minatori del Sulcis che da alcuni giorni lottano per il loro lavoro anche con azioni eclatanti come l’occupazione della miniera di cui si parla ormai dappertutto.

Numeri. 467 persone. Significa 467 famiglie, 467 futuri da salvaguardare, da non abbandonare. Questi sono i numeri da tenere sempre a mente.

Stando a quelli freddi e tecnici dell’economia la miniera di Nuraxi Figus  è antieconomica: solo nell’ultimo anno la Regione Sardegna, azionista unico della Carbosulcis SpA, società che gestisce la miniera, ha dovuto rimpinguare un passivo di bilancio di 30 milioni di euro per ripianare continue e ripetute perdite. Dal 1996 ad oggi il totale dei finanziamenti pubblici ammonta a 600 milioni di euro (fonte qui). Perdite peraltro legate in gran parte alla situazione di monocommittenza nella quale l’azienda si trova a operare. Infatti l’unico cliente della miniera, che però utilizza solo una piccola parte del carbone potenzialmente estraibile, è la centrale elettrica dell’Enel di Portovesme.  Non a caso l’Enel è uno dei principali bersagli di questa lotta: se utilizzasse maggiori quantità di carbone estratto da Nuraxi Figus invece di mischiarlo con altri provenienti da chissà dove, la produttività della miniera aumenterebbe, con conseguente diminuzione (ma non appianamento, secondo alcuni) delle perdite. Il problema, secondo gli esperti, è che il tipo di carbone presente nel sottosuolo ha un basso potere calorico e dunque risulta essere meno competitivo di altri.

L’unica soluzione, sulla quale i politici locali e i minatori stessi stanno puntando fortemente, sta sostanzialmente in un acronimo: Ccs, ossia “Carbon capture and storage”, traducibile in “cattura e stoccaggio della anidride carbonica”.

La proposta è quella di far diventare la miniera di Nuraxi Figus uno dei siti sperimentali in Europa, cofinanziati dalla stessa Ue, per la cattura in sottosuolo della anidride carbonica, nell’ottica dell’abbattimento delle emissioni inquinanti. In poche parole (spero che gli esperti del settore perdoneranno la mia semplificazione) la miniera continuerebbe da un lato a estrarre il carbone per venderlo all’Enel, nel contempo però l’anidride carbonica prodotta verrebbe stoccata sottoterra, facendo diventare quella sulcitana la prima miniera a emissioni-zero.

L’idea in sé pare buona e in linea teorica potrebbe risolvere positivamente la vicenda, salvaguardando i posti di lavoro e garantendo al contempo un ambiente più pulito. In realtà i dubbi sono tanti e molti nodi del tutto irrisolti o, peggio ancora, sconosciuti.

A partire dalla sostenibilità economica del progetto. Secondo il sottosegretario all’Economia De Vincenti, il progetto di riconversione non sta in piedi, perché “costerebbe alla collettività intera circa 250 milioni l’anno per 8 anni”. Sì, due miliardi di euro.

Un recente rapporto del WorldWatch Institute segnala che di 75 progetti di CCS presenti in 17 Paesi, solo 8 sono diventati operativi. Lo stesso Global CCS Institute sostiene che per sviluppare e rendere operativo su vasta scala il sistema CCS bisognerebbe investire, nei prossimi 40 anni, gli stessi capitali investiti nei passati 100 anni nell’industria degli idrocarburi: 100 miliardi di dollari l’anno. Nel 2011 ne sono stati investiti 23,5, come nel 2010 (la fonte è qui).

Ma trovo ancora più allarmante la scarsa conoscenza dei potenziali danni che una “discarica di CO2” nel sottosuolo possa provocare sull’ambiente nel medio- lungo periodo. Ci sono degli studi in corso non proprio rassicuranti e, ahimé, anche alcuni fatti realmente accaduti che mi limito a segnalarvi. A voi la valutazione.

  • Lago Nyos a nord del Camerun: si tratta di un lago di origine vulcanica con una fortissima concentrazione naturale di anidride carbonica nelle sue acque e nel sottosuolo. il 21 agosto 1986 per cause non del tutto chiare (forse una frana o un terremoto) si verifica un massiccio rilascio aereo di una gigantesca nuvola tossica di CO2 che di fatto soffoca e uccide2 mila persone e qualsiasi altro essere vivente dell’area (chi vuole saperne di più clicchi qui);
  • Germania, Bassa Sassonia: nella miniera di salgemma in disuso di Asse, negli anni 60 e 70 erano stati stoccati 126 mila fusti di scorie nucleari provenienti da centrali atomiche. Per gli esperti il luogo era del tutto sicuro, l’idea geniale, senza ombra di pericolo. Senonché due anni fa si è scoperto che la miniera dal punto di vista idrogeologico non era poi così sicura: nella miniera ridotta a colabrodo filtrava acqua, e questa era diventata radioattiva. Quest’anno si dovrebbe procedere alla rimozione delle scorie, ma il danno ambientale è bello che fatto (se ne parla qui).

Non sono eventi direttamente riconducibili alla metodologia CCS, ma indicano senz’altro quanto sia complicato e delicato valutare e assicurare stabilità e sicurezza idrogeologica di un sottosuolo.

Invece sulla metodologia CCS ci sono diversi studi. Greenpeace ad esempio scrive: “nessun progetto al mondo è oggi in grado di integrare con successo nello stesso impianto le tecniche di ‘cattura’ a quelle di ‘stoccaggio’. Non esiste alcun esempio di CCS applicata a impianti di scala industriale”. Inoltre “La CCS potrebbe far raddoppiare i costi delle centrali, con aumenti nel prezzo dell’elettricità stimati del 20-90%. Una fuga di emissioni pari ad appena l’1% potrebbe invece compromettere qualsiasi beneficio per il clima nel lungo periodo”.

Cito infine un recente studio del National Research Council (l’Accademia delle scienze americana) che analizza la relazione tra i terremoti e l’uso di varie tecniche legate all’energia come ad esempio l’estrazione di idrocarburi con metodi convenzionali, il fracking e anche il Ccs.

“Nell’insieme, le tecnologie che fondamentalmente mantengono in equilibrio la quantità dei fluidi estratti o iniettati [nel sottosuolo, NdR] come i pozzi di petrolio convenzionali hanno innescato meno terremoti rispetto a quelle che richiedono estrazione netta o iniezione netta [come il CCS, NdR] ”. Secondo Murray Hitzman, presidente della commissione che ha redatto il rapporto, “le due tecniche con il maggiore disequilibrio sono il sequestro del carbonio e l’iniezione di acque di scarto” (il rapporto completo è scaricabile qui, mentre la sintesi fatta dalla rivista Scientific American è qui).

(NB. Le fonti di documentazione sono due articoli molto interessanti che vi suggerisco: uno di Marco Misoni di Manifatti, qui il link; l’altro di Maria de Il Journal blog, link qui).

La faccenda appare dunque più intricata di quanto possa sembrare. Non ho delle soluzioni in tasca. Mi appello però a tre principi in cui credo fortemente e che secondo me dovrebbero orientare le scelte di futuro della miniera e di tutti coloro che vi lavorano. Ovviamente sono pronto a discuterne e anche a ricredermi.

1) Il lavoro, i lavoratori, le loro famiglie vanno tutelati e sostenuti, senza se e senza ma.

2) Per fare questo occorre individuare progetti di futuro sostenibili. Perché un progetto non sostenibile non è un progetto di futuro. Bisogna spezzare quell’equazione apparentemente perfetta, tanto facile quanto drammaticamente miope, che dice che salvaguardare il lavoratore significa salvaguardare quel posto di lavoro. Non può più essere così. Soprattutto se c’è di mezzo la tutela ambientale della nostra terra (ne abbiamo solo una e la stiamo martoriando) e ancora di più la salvaguardia della salute delle persone che la abitano. Al proposito trovo antropologicamente allarmante l’intervista rilasciata a Repubblica da uno dei minatori in lotta, che cito testualmente: “questa strana società è fatta da persone che non sanno se fuori piove o c’è il sole, non sanno nemmeno se è scoppiata una guerra. In certi tunnel c’è un caldo soffocante, in altri si gela. Vivere senza sole non è vivere. Eppure, se vuoi mantenere la famiglia, devi lottare per tenerti questo lavoro, e magari sperare che un giorno tuo figlio possa entrare in miniera, visto che ha fatto l’università, ha cercato lavoro anche all’estero e non ha trovato nulla”. Come mortificarsi ex-ante. Un po’ come all’ILVA di Taranto: sì è vero, crepiamo tutti di tumore, ma almeno riusciamo a mantenere la famiglia …

3) In un mondo che si avvia verso la totale decarbonizzazione a vantaggio di nuove energie green, più sostenibili e pulite, inseguire la chimera del carbone pulito (ossimoro) che si raggiunge distillando veleno nel sottosuolo, senza conoscerne le possibili conseguenze mi pare quantomeno inquietante, oltreché del tutto incongruente rispetto, ad esempio, alle recenti battaglie preventive contro lo stoccaggio potenziale di scorie nucleari nella nostra isola.

Compito della politica è trovare soluzioni alternative capaci di generare futuro sostenibile, che significa restituire un lavoro di almeno pari dignità a chi lo perderà con la chiusura di fabbriche e miniere  (sostenibilità sociale), tutelare sempre e comunque ambiente e salute della collettività (sostenibilità ambientale), rimettere in moto l’economia del territorio (sostenibilità economica).

Non è facile, non lo è per niente, perché presuppone alla base un lavoro profondo e attento di ascolto e confronto dal basso per portare avanti scelte il più possibile condivise.

Esistono però, a riguardo, dei casi di successo dove la politica in sinergia con la comunità e gli stakeholder del territorio, ha saputo fare questo, riuscendo a riconvertire intere aree industriali ed estrattive dismesse in progetti di qualità e di futuro sociale, economico e ambientale. Con il sostegno e l’apprezzamento della collettività.

In particolare mi ha colpito il caso dell’Eeisbahn Korerei Zollverein di Essen, in Germania. Stiamo parlando dell’area del bacino della Ruhr in Baviera: 4.432 kmq di superficie, oltre 6 milioni di abitanti, 142 miniere di carbone, 31 porti industriali fluviali; 1.400 km di autostrade e tangenziali. Una delle aree più industrializzate del mondo e senza dubbio una delle più grandi regioni minerarie e siderurgiche d’Europa.

Zollverein è stata la più grande miniera nella zona della Ruhr (100 ettari di superficie e 12.000 tonnellate giornaliere di carbone). Nel corso degli anni ’70 i settori estrattivi e dell’acciaio sono entrati in crisi, con conseguenze devastanti quali la disoccupazione di massa e la difficoltà a riqualificare un territorio così intensamente infrastrutturato. Anche Zollverein alla fine del 1986 viene dismessa, dopo ben 135 anni di attività.

Cosa fare dell’area? Il Consorzio delle Imprese Minerarie voleva demolire le strutture, ma la volontà di tutelarne identità, storia economica e sociale, architettura, si sono rivelate più forti. Zollverein viene indicata “Monumento della città di Essen” da un Decreto Ministeriale, diventando poi parte integrante del più ampio progetto di riconversione di edifici industriali promosso dall’IBA Emscher Park. Due righe per capire meglio. L’IBA (Internationale Bauausstellung) era una mostra internazionale di architettura che era riuscita a imporre Berlino all’attenzione della cultura contemporanea, mentre l’Emscher era un fiume canalizzato della Ruhr utilizzato come discarica a cielo aperto per la zona industriale.

L’idea, rivelatasi poi vincente, fu quella di portare l’IBA sulle rive inquinate dell’Emscher. Con un obiettivo strategico di fondo molto chiaro ben raccontato in un articolo di Pierluigi Sacco, professore esperto di economia della cultura: “ricucire, restituire logica e significato a dinosauri senz’anima e senza speranza, ripulire e bonificare l’area, soprattutto reinnescare processi di affezione e di appartenenza”.

In soli 10 anni, tra il 1990 e il 2000, si lavorò per “far nascere nuove piccole imprese, dotare gli abitanti di una mentalità più dinamica, ridisegnare la geografia delle strade e persino di molte città cresciute come atolli intorno a miniere che non c’erano più e la cui chiusura aveva interrotto attraversamenti reali o solo mentali”. A capo di tutto L’IBA Emscher Park, “organizzazione gestita in maniera mirata e coinvolgente, a volte quasi visionaria da Karl Ganser, il direttore con pieni poteri”, ma che si muoveva “per scelta politica chiara lungo due coordinate che volta per volta stabilivano l’efficacia e la graduatoria del singolo progetto: lavoro ed ecologia”.

“Ogni iniziativa, ogni proposta, ogni suggerimento doveva rispondere prioritariamente a questi due imperativi: creare opportunità d’impiego e contribuire a riqualificare il territorio. I progetti “adottati” ricevevano il marchio IBA e diventavano per il sistema politico / amministrativo di prima priorità; su questi confluivano tutte le risorse normalmente disponibili per l’incentivazione industriale, per la bonifica delle aree, per le energie alternative, per l’occupazione, per il sostegno alla disoccupazione, per il riequilibrio territoriale ecc.”

Il progetto IBA-Emscher Park, nato sotto la guida del Ministero della Pianificazione Urbana e dei Trasporti del Land, è stato però concepito come un processo dal basso che ha recepito iniziative provenienti da attori innovativi. Sono stati promossi singoli progetti connessi al tema di fondo della trasformazione del territorio nel rispetto della memoria del passato industriale e alla promozione della cultura. Il progetto è stato affidato ad una agenzia, con uno staff di 30 persone, che ha avviato il lavoro con l’obiettivo di coordinare la trasformazione ecologica e la rinascita dei siti abbandonati.

Il costo totale dell’intervento è stato di due miliardi e mezzo di euro (quanti ne servirebbero per la Ccs Sulcitana …).

Tornando alla miniera, anche Zollverein viene coinvolta in questo processo di riqualificazione.  Nel 2002 diventa patrimonio dell’umanità e da allora è oggetto di un progetto di trasformazione in parco culturale iniziato nel 2001 e aperto nel 2006. Oggi EISBAHN KOKEREI ZOLLVEREIN è un Parco multifunzionale che combina il valore storico e architettonico del luogo con lo sviluppo commerciale per il tempo libero e l’attrazione turistica, fungendo da vero e proprio “catalizzatore di innovazioni”.

L’offerta culturale e di intrattenimento dello Zollverein di Essen attrae circa 500.000 persone ogni anno, e ospita tra le sue imponenti strutture la Zollverein School of Management and Design. Offre una vasta gamma di attrazioni: storia, cultura, creatività, eventi, gastronomia, attività per il tempo libero, mostre di arte e design, danza e performance, workshop, fiere e convegni, divertimento per famiglie e bambini. Inoltre il centro offre uffici e atelier per le persone che devono creare la loro azienda e funziona da incubatore creativo.

Chi vuole saperne di più può cliccare qui e qui.

Ecco un altro futuro possibile per gli amici minatori e le loro famiglie. Forse il caso Ruhr non è applicabile al nostro Sulcis, senz’altro più povero. Forse in parte sì. Questo è però il compito della politica: disegnare, favorire e sostenere idee sostenibili di futuro. Deve avere coraggio e una capacità di vedere oltre la prossima tornata elettorale. Oltre gli interessi di parte. Ma non può esimersi dal farlo. Altrimenti, che senso di esistere ha?

“Ora passa la notte e, come senti, non piove più.” (Ivano Fossati)


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